Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancorabuio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altrodiscepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sap-piamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Al-lora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Vale la pena credere a un Dio debole?
Viviamo un tempo “violento”. La Pandemia che tutti ha coinvolto è entrata con violenza nella nostra vita, nei nostri legami affettivi, nei nostri corpi, nelle nostre sicurezze… sconvolgendoci, gettandoci nell’esperienza costante della precarietà, sequestrandoci nella paura del contagio, segnando distanze e divisioni tra noi, non solo fisiche, ma anche di pensiero e di cuore, inaugurando nuove incomunicabilità e pregiudizi.
Anche l’inizio della ripresa è stato “violento”, della violenza della frenesia, della corsa a cercare di recuperare ciò che si è perduto, creando attese tramutate in pretese, fretta cambiata in aggressività, alzando il tasso di competizione nei rapporti, assieme alla fatica di fidarci dell’altro, alla fatica di proteggerlo dal nostro sospetto che lo stia facendo intenzionalmente quando qualcosa non corrisponde alle nostre attese. Ha creato in noi la “sindrome dei feriti che si difendono graffiando”. Poi arriva la guerra in Europa che riempie mente e cuore di violenza incomprensibile, di umanità che scappa con la morte nel cuore, di disumanità che si consuma nelle città ucraine e verso civili imprigionati tra più fuochi. Un tempo “violento” che grida: “Basta!”, un tempo che sembra evocare la presenza di un Dio risolutore, perché noi uomini da soli non riusciamo a sistemare e fare bene le cose e ci vuole Uno più forte, magari che castighi o che imponga la sua autorità e presenza per mettere al proprio posto ogni arrogante.
E invece ci troviamo a celebrare un Dio debole, un Dio che non impone la sua divinità, gloria, onnipotenza, che non costringe a credergli e seguirlo, ma addirittura si fa uno di noi, uomo fragile come tutti gli uomini e le donne. Un Dio che si fa uomo in Gesù e si mette nelle mani degli uomini, si consegna alla loro libertà di scelta perché facciano di lui ciò che vogliono, fino ad accettare di essere rifiutato, disprezzato, violentato, ucciso in croce, nel modo più umiliante e disumanizzante allora conosciuto. Anche Gesù ha conosciuto il tempo violento del tradimento degli amici, dell’incomprensione e del pregiudizio, del disprezzo, dell’aggressione e della condanna, della violenza fisica e della morte violenta. Un Dio forte sarebbe sceso dalla croce e avrebbe sistemato con un fuoco divorante i nemici, così che tutti potessero vedere e capire chi è che comanda.
Gesù inaugura un’altra via. Non è venuto a raccontarci un Dio prepotente e onnipotente, ma ci ha raccontato il volto del Padre, così come Lui lo vive da Figlio, immerso nel suo Amore eterno. Ci ha mostrato un modo per vivere ogni “tempo violento”. Lo vediamo nel Cenacolo offrire l’ultimo boccone della comunione a colui che lo tradisce. Mentre stanno per andare nel giardino egli Ulivi lo sentiamo pregare per colui che di lì a poco lo rinnegherà e raggiungerà il gruppo di coloro che lo abbandonano. Lo troviamo al Getzemani in una preghiera che non finisce e lotta contro il dubbio di aver sbagliato tutto, contro la paura di soffrire e morire, contro il pensiero tentatore di aver creduto in un Dio che quando serve ti molla, di un Dio inaffidabile… e il suo pregare è Abbà-Papà non la mia, ma la tua volontà, cioè mi fido di te fino in fondo, fino alla fine. Ed eccolo a guarire l’orecchio, ferito dalla spada, del servo di chi è venuto a catturarlo. Lo contempliamo silenzioso, di fronte ad accuse, sputi, umiliazioni e violenze, in un atto di silenzio mite, perché la sua parola tagliente di verità e amore potrebbe inchiodare a morte. Al canto del gallo ci raggiunge il suo sguardo pieno di tenerezza e di misericordia per il discepolo che lo misconosce. E ci rivela il suo cuore quando, lungo la salita del calvario, si preoccupa per le donne ed i loro grembi destinati a sofferenza. Anche inchiodato al legno ha una parola ed uno sguardo di salvezza per il convertito dell’ultimo minuto, una preghiera di perdono per coloro che lo crocifiggono, un grido di abbandono fiducioso nelle mani del Padre, come un bimbo che è in braccio a papà. Il suo modo di essere uomo e figlio ci mostra la via per ogni “tempo violento”. Anche in un tempo così, anche se siamo inchiodati, bloccati, possiamo sempre vivere pensieri, parole, gesti che dicono l’amore vero, la fiducia possibile, fino in fondo, fino all’ultimo respiro, ostinatamente.
Solo questo modo di esistere come uomo e come figlio porta il frutto della Resurrezione. La morte, che è divisione e perdita di ogni fiducia e speranza, non può incatenare una vita che ama concretamente in ogni tempo e che continuamente si affida. Il Risorto che è con noi nella debolezza, che attraversa con noi il “tempo violento”; con il suo Spirito di amore e fiducia, consegnato a noi dalla croce, continua a dirci: “Coraggio, sono con te, debole con te. Puoi amare ancora una volta, puoi ancora una volta fidarti e affidarti al Padre Nostro.
Buona Pasqua
don Renato, don Davide, don Corrado, Paola, Laura e Francesco